Tato Russo, nella riduzione teatrale de “Il villaggio di Stepàncikovo e i suoi abitanti” di Fjòdor Dostojevskij del 1859, colloca il racconto all’interno della struttura tradizionale della commedia in tre atti. Mi sembra un intuizione forte sia perché corrisponde alle esigenze narrative del racconto, sia perché permette di dare al racconto stesso, ritmi e risvolti di precisa teatralità, ricca di risonanze e di echi stilistici. Viene esaltato così il piccolo mondo di provincia gretto e meschino, preoccupato di far vivere interessi, invidia, pettegolezzi e gelosie. È il mondo profondo della provincia russa, luogo dell’immobilità, di statuti fissati inamovibili e del conflitto tra questi statuti e la pulsione forte dei sentimenti. L’amore appare infatti confinato a trattativa, e come in tutte le commedie di intreccio che si rispettino destinato a creare equivoci, battaglie, lacrime, svelamenti e qualche volta, come in questo caso, un lieto fine imprevisto. Su questo mondo si delinea la figura inquietante del protagonista. È il carattere di un Tartufo moderno, un ipocrita che dietro alla retorica di discorsi moralistici nasconde in realtà la sua voglia di sopraffazione delle persone che lo circondano.
E in più, dentro al suo animo, prende corpo la scoperta della capacità di poter esercitare un potere sugl’altri e meglio ancora di verificare i meccanismi con cui esercitare concretamente questo potere, attraverso l’effetto intimidatorio della cultura. Non ha altre armi il protagonista Fomà Fomic, non quella della ricchezza, non quella del comando politico, militare o religioso, ma solo e soltanto quello della parola e degli echi profondi che può creare in chi ascolta. La tensione drammaturgica si configura come scontro di linguaggi: quello piano e reale dei problemi quotidiani, diciamo il linguaggio basso della realtà, e quello alto di chi usa concetti, similitudini, iperboli, ansie retoriche in grado di creare atmosfere in cui il linguaggio basso e la sua logica si smarrisca, sia costretto a rendersi rispettoso, a raccogliersi nel silenzio dell’imbarazzo o della propria impotenza o nullità. Fomà Fomìc vuole e riesce a creare disagio, incertezze, spiazzamenti, non tanto per affermare valori, ma soltanto per affermare se stesso all’interno di una comunità condannata dal suo tempo a non avere prospettive. Su questa mancanza di senso lavora Fomà, non tanto per riempirla, ma per fingere di riempirla di senso come i grandi ipocriti sanno fare. Nel contrasto fra questi due mondi linguistici nasce anche il tono stilistico che Dostojevskij ci indica: un tono decisamente umoristico con il quale il grande autore meglio può descrivere tensioni e problematiche profonde. È la grande lezione del teatro comico russo che parte da Gogol passa in Dostojevskij fino ad arrivare al Cechov degli atti unici e di cui si nutrirà l’esperienza teatrale di Mejerchol’d: l’umorismo e la comicità come capacità di raccontare bene e meglio i grandi temi e i drammi che hanno attraversato la società di allora e che attraversano anche la società nella quale viviamo oggi. Ho lavorato per cercare il giusto tono stilistico di questo umorismo, di questo grottesco, evitando la via facile della parodia o della palude del realismo spicciolo. Nella sua reinvenzione teatrale Tato Russo ha concentrato la tensione drammaturgica sulla descrizione dei tratti di un piccolo capolavoro d’ambiente, sull’analisi grottesca di un mondo compresso e inibito, succube di un mediocre intellettuale saccente e arrogante, che però, come ispirato da Dio, sa usare toni da demiurgo dell’anima. Il nodo centrale della riduzione è quello di una parabola sul potere e sulle sue tecniche di comunicazione: l’arte di influenzare e affascinare gli sciocchi e gli sprovveduti per potere perpetuare il proprio dominio. Un’occasione per costruire uno spettacolo ispirato e spettacolare nello stesso tempo, divertente e inquietante, dalla comicità stralunata e grottesca, un’occasione per far conoscere un capolavoro poco conosciuto di Fjòdor Dostoevskij, ripensato attraverso la grande stagione umoristica del teatro russo, e infine un’occasione di incontrare un grande personaggio, i cui echi e rimandi sono di una potente e sconcertante attualità.

Alvaro Piccardi